Parliamo di impresa sociale con Jacopo Corona

Chi è Jacopo? Sono Jacopo, ho 32 anni, e da sei anni vivo l’esperienza del terzo settore con l’avventura di Frolla. Prima di questa esperienza, lavoravo nel settore alimentare, un ambito che mi ha sempre appassionato, ma non era legato alle tematiche sociali che ho sempre sentito molto vicine a livello personale. Ho partecipato a numerose attività di volontariato, sia in Italia che all’estero, collaborando con associazioni e fondazioni, ma lo facevo a titolo puramente volontaristico. Nel 2017, però, l’azienda per cui lavoravo ha chiuso, e mi sono trovato a dover ripensare il mio percorso. In quel momento mi sono fermato a riflettere su cosa volessi fare davvero. Ho capito che volevo dedicarmi a qualcosa che mi rappresentasse, unendo il mio background nel settore alimentare alla mia passione per il sociale. Da lì è nata l’idea di creare Frolla, un progetto che coniuga questi due mondi in un’impresa sociale che cerca di avere un impatto concreto. Quali ostacoli hai affrontato nella fase iniziale, passando dall’idea all’impresa? L’età è stato il primo grande ostacolo. Avevo 24 anni quando ho iniziato a lavorare su questa idea, e purtroppo in Italia sei visto ancora come un “ragazzino”. Nonostante il progetto piacesse e il business plan fosse ben fatto, perché ci eravamo fatti aiutare da molti professionisti, non era facile ottenere fiducia, soprattutto da banche e fondazioni. Avere poca esperienza pregressa a livello imprenditoriale non aiutava. Per superare queste difficoltà, ci siamo affidati a metodi alternativi, come una campagna di crowdfunding e l’idea dell’impresa collettiva, che ci ha permesso di coinvolgere diverse persone nel progetto. Anche la burocrazia è stata un grande ostacolo: non era semplice coniugare il mondo alimentare con quello sociale, e spesso neanche gli uffici competenti sapevano bene come gestire la nostra richiesta. È stato un periodo molto impegnativo, ma siamo riusciti a trovare una strada e a partire. C’è mai stato un momento in cui hai pensato di mollare? Mollare no, mai. Certo, ci sono stati momenti di grande difficoltà, soprattutto all’inizio, quando cercavamo di far partire il progetto e trovare i fondi. Non è stato facile, ma ho sempre creduto molto in quello che stavamo facendo. Questo senso di condivisione è stato fondamentale: non è mai stato un progetto solo mio, ma il risultato di un lavoro di squadra con tante persone che hanno creduto nel sogno di Frolla. Ovviamente ci sono state giornate pesanti, in cui tornavo a casa sfinito, ma non mi sono mai sentito sopraffatto al punto di voler abbandonare tutto. Credo che chi fa impresa, soprattutto nel sociale, debba avere una grande elasticità mentale e capacità di adattamento. Le crisi ormai sono sempre più frequenti, e se non sei flessibile, rischi di spezzarti. Come avete gestito la formazione dei ragazzi e delle ragazze che lavorano con voi? Abbiamo sviluppato due canali principali per l’inserimento lavorativo. Da un lato, collaboriamo con un istituto alberghiero della nostra zona, con cui abbiamo una convenzione che permette ai ragazzi e alle ragazze con disabilità di frequentare il nostro laboratorio durante il percorso scolastico, attraverso stage o alternanza scuola–lavoro. Questo ci consente di creare un ponte tra il mondo scolastico e quello lavorativo, aiutando i giovani a capire l’importanza e l’applicazione pratica di quello che imparano a scuola. Dall’altro lato, lavoriamo direttamente con i servizi sociali di circa 78 comuni nella nostra area. Qui ci occupiamo di ragazzi che spesso sono fuori dal sistema scolastico da anni, quindi il loro inserimento è più complesso. Per questo stiamo investendo in una nuova struttura, dove poter realizzare laboratori professionalizzanti e accompagnare questi ragazzi in un percorso più graduale e personalizzato. Quanto è stato difficile collaborare con le istituzioni locali? Devo dire che oggi, dopo cinque o sei anni di attività, siamo un punto di riferimento per i comuni della nostra zona. Fin dall’inizio, però, ci siamo posizionati come una risorsa per loro, visto che qui ci sono poche strutture capaci di offrire percorsi di inserimento lavorativo per ragazzi con disabilità. Tuttavia, gestire un’impresa sociale significa anche imparare a non dipendere troppo da convenzioni pubbliche. Noi crediamo fermamente che un’attività come la nostra debba essere sostenibile da sola, basandosi su quello che produce. Il fund–raising è uno strumento utile, ma lo usiamo per investire e migliorare i servizi, non per mantenere l’attività operativa. Come avete affrontato il periodo del Covid-19? Invece di chiuderci, abbiamo deciso di investire. Nel 2020 abbiamo puntato sull’e-commerce, un canale che ha avuto un boom grazie al lockdown, e nel 2021 abbiamo lanciato il progetto Frolla Bordi. Non è stato facile: il nostro team interno era ridotto e dovevamo gestire tutto in condizioni complicate. Ma siamo riusciti a trasformare una situazione critica in un’opportunità. Per dare un’idea, nel 2020 abbiamo aumentato il fatturato del 70% rispetto all’anno precedente. Qual è stato l’impatto del vostro ambiente lavorativo sui ragazzi e le ragazze? L’impatto è stato enorme, soprattutto a livello personale. I ragazzi che lavorano con noi, soprattutto quelli provenienti da situazioni più difficili, hanno sviluppato competenze relazionali e una maggiore autonomia. Si sono create amicizie, organizzano attività insieme fuori dal lavoro, come andare al cinema o giocare a bowling. Anche il rapporto con i clienti è significativo: alcuni ragazzi vengono chiamati per nome dai clienti abituali, un riconoscimento che per loro ha un valore immenso. Abbiamo sempre cercato di creare un ambiente aperto e integrato con la comunità, dove il divertimento è parte integrante del lavoro. Secondo te, quanto è replicabile in Italia un modello di impresa sociale come il vostro? Tantissimo. Sempre più aziende stanno capendo l’importanza di integrare la responsabilità sociale nel proprio modello di business. Credo che ci sia una grande rivoluzione in corso, con il profit e il no profit che si avvicinano sempre di più. Non si tratta solo di fare beneficenza, ma di ripensare l’impresa come un attore sociale. Questo approccio è fondamentale, soprattutto in un momento storico come il nostro, in cui il benessere delle persone e la sostenibilità devono diventare centrali.